top of page
  • Alberto Rossi

MARINA ABRAMOVIĆ: QUANDO L'ARTE DIVENTA ESTREMA

Se qualcuno ci chiedesse cosa ci colpisce di più di un’opera d’arte, forse, la maggior parte di noi direbbe l’immediatezza, ciò che ci permettere di vivere un’emozione già al primo sguardo. Pensiamo ad alcuni stili dell’arte figurativa: quando ci poniamo di fronte ad un’opera che vuole rappresentare un paesaggio, un volto o una scena di vita, ci sentiamo appagati. E’ difficile provare sentimenti contrastanti ed emozioni antitetiche di fronte ad un Manet, un Canova o ad un Modigliani, ma è più semplice sentire pace e serenità.

Uno dei pregi del Novecento, dal punto di vista artistico, consiste nell’aver trasceso e superato la pittura figurativa verso forme d’arte meno immediate e più complesse. Tra queste la Performance art, nata intorno agli anni Sessanta del Novecento.

La performance art appartiene al filone dell’arte concettuale, che si distingue nettamente dall’arte figurativa sia per le modalità di realizzazione sia per il fine che cerca di perseguire. Infatti, l’arte concettuale privilegia l’idea e il processo, lo schema concettuale dell’opera piuttosto che l’oggetto materiale. Quattro sono gli elementi imprescindibili della performance art: spazio, tempo, corpo del performer e il rapporto tra questo e il pubblico. L’artista si rende protagonista ponendo sé stesso al centro dell’opera e, in quanto espressione artistica, rompe con gran parte delle tradizioni precedenti. Infatti, l’opera d’arte non è più un oggetto immobile, ma diviene evento in cui il performer, nella sua azione artistica, incarna un determinato gesto che si fa portatore di molteplici significati. Di conseguenza, le interpretazioni possono essere molteplici. Inoltre, egli non si cela più dietro al proprio prodotto, ma si espone apertamente al pubblico nella sua esibizione interdisciplinare , coinvolgendo e facendo interagire il cinema, il teatro, la danza e la poesia. L’esibizione può essere programmata o casuale, accuratamente orchestrata secondo determinati criteri o senza pianificazione. Ad ogni modo, l’intento del performer è di dar vita ad un’ esperienza irripetibile ed autentica che talvolta si fa estrema per un pubblico considerato come un’entità non meramente passiva, bensì attiva e coinvolta nella performance.

Una delle performer più amate e più discusse è Marina Abramović, “la nonna della performance art”, che ha rappresentato, e rappresenta tuttora, un esempio, a volte stremo, di performance art.

Da sempre indipendente e autonoma, dopo aver concluso l’Accademia di Belle Arti di Belgrado, ad Amsterdam, nel 1976, incontrò una delle persone più importanti della sua vita, Ulay, pseudonimo di Frank Uwe Laysiepen, ex ingegnere e amante della fotografia, con il quale strinse un sodalizio artistico che si trasformò di lì a poco in una vera e propria storia d’amore. I due, perdutamente innamorati, di comune accordo, presero la decisione non solo di vivere insieme ma anche di lavorare fianco a fianco. Iniziarono a girare l’Europa in un camper, vivendo dello stretto necessario, senza riscaldamento, senza acqua corrente e mangiando gli alimenti che venivano offerti loro. Tale esperienza, che per molti potrebbe essere estrema o priva di senso, fu il periodo più bello della loro vita in cui vissero come se fossero una cosa sola: “io sono una metà, lui è una metà, insieme siamo un’unità”.

Nelle prime performance degli anni Settanta, Marina e Ulay cercarono di esplorare i limiti psico-fisici dell’essere umano e di porre attenzione alla relazione uomo-donna. “Breathing in/ Breathing out”, realizzata dopo le performance “AAA-AAA” e “Relation in time”, si spinse oltre le precedenti per il grado di suggestione che fece evocare. Infatti, in “Breathing in/ Breathing out”, dopo aver tappato le proprie narici con filtri per sigarette, rimasero bocca a bocca, respirando il respiro emesso dall’altro. Dopo quasi venti minuti, entrambi svennero collassati a terra.

Un’altra esibizione, che rimase nella memoria collettiva, fu “Rest Energy”, realizzata nel 1980, in cui entrambi dimostrarono ancora una volta l’equilibrio estremo che fu al centro non solo della loro arte ma anche della loro storia d’amore. I due performer decisero di frapporre tra loro un arco: la freccia fu rivolta al cuore di Marina, che tirò l’arco verso di sé dalla parte dell’impugnatura, mentre Ulay tese la corda. Il baricentro di entrambi è lasciato andare, solo l’arco consente loro di rimanere in piedi in un equilibrio precario. L’intera performance fu all’insegna della tensione perché un solo movimento errato, una minima distrazione o un’incertezza momentanea, avrebbe potuto minare l’equilibrio creato, uccidendo così Marina. La performance durò solamente quattro minuti. All’altezza delle costole, paralleli al cuore, vennero messi dei microfoni per registrare i battiti cardiaci di entrambi.

La loro relazione, sia artistica sia intima, però, era destinata a finire.

Negli ultimi tre anni di relazione, dal 1985 al 1988, incomprensioni insanabili e tradimenti imperdonabili, portarono i due artisti a separarsi. Forse, la stessa fama andò a deteriorare la loro intima complicità. Il 1988 fu l’anno che sancì la fine della loro relazione, durata per ben dodici anni.

Estremi fino alla fine, decisero di lasciarsi a modo loro, attraverso una performance molto impegnativa, intitolata “The lovers: the Great Wall Walk”, che li vide percorrere più di duemila chilometri della Grande Muraglia Cinese. Ognuno dei due doveva partire da un’estremità opposta a quella dell’altro. Ulay iniziò il proprio cammino dall’estremità occidentale, nella provincia del Gansu, mentre Marina da quella orientale, chiamata Testa del Dragone. Ci vollero ben novanta giorni di cammino e dopo 2500Km si incontrarono, si abbracciarono e poi si dissero addio per sempre. Questa performance fu per Marina uno dei momenti più dolorosi e ricchi di sofferenza. Dopo questa separazione, entrambi seguirono strade diverse che si sfioreranno per l’ultima volta nel 2010, quando fu di nuovo l’arte a metterli l’uno di fronte all’altra, durante la famosa performance “The artist is present”, in cui Marina fu protagonista e trascorse ben 716 ore e mezzo (sette ore al giorno), seduta al MoMA davanti ad una lunga tavola e ad una sedia vuota, dove i visitatori potevano sedersi a turno sostenendo il suo sguardo in silenzio per due minuti. Ad un certo punto, si vide dalle retrovie apparire Ulay, invecchiato e malato di cancro, che decise di vedere per l’ultima volta quella donna con la quale condivise arte, passione e vita. Quando i due incrociarono gli sguardi, la Abramović non riuscì a trattenersi e, dopo aver allungato le mani verso il suo ex compagno in segno di affetto, si mise a piangere. Finiti i due minuti, Ulay si alzò dalla sedia e la salutò per l’ultimissima volta. Fu una performance nella performance, che portò l’impassibile e l’immobile Abramović a infrangere quelle regole e quei limiti che lei stessa decise di fissare.

Per quanto il performer artist abbia la tendenza a spingersi oltre i limiti, nel caso dell’incontro tra la Abramović e Ulay, in “The artist is present”, si assiste ad un momento in cui la performance sembra arrestarsi, lasciando spazio ad uno sguardo che non è assente, ma vivo, ad una stretta di mani che è dettata da sentimenti e ad un silenzio che è indice di ciò che resta del primo grande amore della sua vita. Sebbene la loro storia sia stata caratterizzata per molti versi da incomprensioni e tradimenti, ciò che resta è l’autenticità delle loro vite vissute come opere d’arte.

308 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Comments


bottom of page